Rassegna web di nandocan magazine
Contrario
di Massimo Marnetto
Nel merito, sono contrario all’elezione diretta del Presidente della Repubblica proposta dalla destra, perché non ritengo il popolo – giustamente diviso in fazioni – adatto a scegliere un arbitro. Al Quirinale non deve andare una persona che ecciti una maggioranza, ma una figura coagulante, che goda di stima trasversale per tenere il Paese unito nell’alveo della Costituzione.
Nel metodo, sono contrario ad accendere una discussione sulla Carta, quando occorrerebbe concentrare tutte le energie per cogliere l’opportunità del pieno utilizzo dei fondi del PNRR, per un Paese che ha bisogno di manutenzione del proprio territorio e soluzioni dei problemi dei propri abitanti.
Il ripudio del conformismo

Giuseppe Salamone su Facebook
Se c’è un leader che ha coraggio da vendere, oggi quel leader si chiama Luiz Inácio Lula da Silva, il Presidente del Brasile. È andato nel Regno Unito per l’incoronazione di Carletto ma ciò che merita una standing ovation lunga almeno 365 giorni avviene dopo.Si presenta in conferenza stampa, direttamente nella patria dei diritti e della democrazia dove è rinchiuso Assange e pronuncia un discorso da far venire i brividi che sbugiarda stampa, “mondo buono e democratico” e ne mette in evidenza la pericolosa ipocrisia. Praticamente gli ha sbattuto in faccia direttamente a casa loro la bio vergognosa vicenda di Julian Assange:
“È una vergogna che un giornalista che ha denunciato gli imbrogli di uno Stato contro un altro venga arrestato e condannato a morire in carcere mentre nessuno fa niente per liberarlo. È una cosa folle! Però tutti che parlano di libertà di espressione e diritto di gridare come si deve “libertà”. Cioè, il ragazzo è in carcere perché ha denunciato i crimini e la stampa non si muove in difesa di questo giornalista?
Io sinceramente non riesco a capire, non riesco a capire…. Chiedo persino scusa perché sto andando di fretta, ma quando arriverò in Brasile chiamerò il primo ministro perché questo era un argomento di cui mi ero dimenticato di parlare con lui. Ho già inviato una lettera al veleno, ho pubblicato una lettera e ho scritto articoli su Assange, ma penso che sia necessario un movimento di stampa mondiale in sua difesa perché la sua difesa come persona, è la difesa della Libertà di denunciare.
Il ragazzo non ha denunciato nulla di falso, il ragazzo ha denunciato che uno Stato stava sottomettendo gli altri. Questo adesso è diventato un crimine contro il giornalista? E la stampa che difende la libertà di stampa non fa un movimento per liberare questo cittadino? È triste, è triste ma è la verità. La verità è che ogni tanto dobbiamo mettere in pratica le nostre teorie per poter continuare a parlare di libertà di espressione…”
Ogni giorno che passa, la stima verso Lula, questo Gran Signore, aumenta esponenzialmente. Non smetterei mai di ringraziarlo perché leader come lui rappresentano ancora una speranza vera per tutta l’umanità. Andrebbe appoggiato nelle sue battaglie, ma qualcuno che si reputa democratico ha deciso solo di fermarsi ai festeggiamenti per la sua vittoria per poi voltarsi dall’altra parte quando serviva passare dalle parole ai fatti. Obrigado Senhor!
Maggioranza di destra per riscrivere la Costituzione in Cile

di Livio Zanotti
A fronte di maggiori tensioni sociali, più dissenso dal governo; a fronte di minore sicurezza personale, meno preoccupazione per libertà, diritti e solidarietà. A Santiago, ieri notte, negli ambienti di governo prevaleva l’idea che in un contesto epocale scarsamente ideologizzato, sono le preoccupazioni per i problemi immediati che nelle coscienze dei più prevalgono su quelli a venire. Queste equazioni e relative variabili non sono dati algebrici, bensì percezioni politiche. Tuttavia appaiono nitide e coerenti nell’esito elettorale di ieri per l’elezione dei 50 membri della Convenzione incaricata di redigere la nuova Costituzione nazionale, che sostituirà quella voluta nel 1980 dal generale Augusto Pinochet.
In non molto più di un anno, gli umori politici dei 15 milioni di elettori cileni si sono spostati tumultuosamente dalla sinistra (che si è fermata al 37,4 per cento) alla destra (giunta al 56,6). E all’interno di quest’ultima, al conservatorismo delle due formazioni tradizionali hanno preferito nettamente il nuovo estremismo del Partito Repubblicano, che ha riportato la più alta quota di seggi: 22 (con relativo potere di veto, in precedenza nelle mani della sinistra). Sommati agli altri 11seggi conseguiti dalla coalizione dei tradizionalisti (Chile Seguro) i conservatori si sono assicurati l’assoluta maggioranza. Rispetto ai 17 della sinistra che fa capo al presidente Gabriel Boric, ora politicamente in sofferenza.
Non sono mancati neppure errori di valutazione, tanto sul fronte progressista quanto in quello conservatore. Nel centro-sinistra, democristiani, Radicali e socialdemocratici che hanno scelto di presentarsi separatamente non hanno raggiunto il quorum necessario e il loro abbondante 9 per cento è andato completamente disperso. Altrettanto è accaduto all’oltre 5 per cento del Partito della Gente, un estemporaneo tentativo populista di destra. Cosi come non andrà molto oltre il suo valore simbolico il seggio riservato alla rappresentanza dei popoli originari. Nient’affatto trascurabili per la valutazione dell’attuale sentimento politico dei cileni in un’elezione rigorosamente obbligatoria, il numero delle schede nulle (16,8 per cento), bianche (4,5) e i 500mila elettori che hanno giustificato anticipatamente la loro impossibilità di concorrere alle urne.
Un duplice terremoto, dunque. E un clamoroso paradosso: poiché il potere determinante di riscrivere la Carta Magna viene così affidato al partito che difende strenuamente quella vigente. Che sia pur corretta più volte in senso democratico negli oltre 40 anni trascorsi, conserva l’impianto voluto da Augusto Pinochet: politicamente autoritario e ultra-liberista in economia. Perciò una maggioranza di cileni aveva espresso la volontà di sostituirla. Ma la versione proposta l’anno scorso all’approvazione popolare era nettamente naufragata nel referendum di dicembre. La medesima sorte potrebbe toccare alla nuova versione nel nuovo referendum popolare di fine 2023. Ma provocherebbe certamente un cataclisma non solo istituzionale, bensì politico e sociale. Nessuno se lo augura.
In Sudan la guerra vera è quella per l’oro. La guerra che nessuno ci racconta
da Remocontro

Un paese da decenni martoriato da guerre civili, come quella in Darfur, e nel 2011 nella secessione e indipendenza del Sud Sudan. Ora la lotta per il potere fra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah Al-Burhan e le forze speciali RSF del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto ‘Hemetti’, a nascondere l’interesse di potenze straniere per i giacimenti di oro e petrolio del paese, e la sua posizione strategica di crocevia fra il Sahel, il Corno d’Africa e il Mar Rosso, fra Suez, cioè il Mediterraneo, e l’Oceano Indiano.
Il vero ‘si salvi chi può’
In due settimane gli scontri hanno provocato almeno 334.000 sfollati interni secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Più di 100.000 persone sono fuggite nelle nazioni vicine, tra cui Egitto, Ciad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana ed Etiopia già un condizioni di crisi interna. «Il 29 aprile le RSF sostenevano di avere in controllo sul 90% dello stato regionale di Khartum», scrive Mirko Molteni su Analisi Mondo. Ma chi ci crede è perduto.
Oltre il potere cosa?
Nel Darfur, ad arricchire il caos, stanno ricominciando gli scontri fra arabi e neri. ‘Effetto domino’, temuto dal segretario Onu Guterres. E lì, sappiamo, ci sono le ricche miniere d’oro. Conseguenze geopolitiche in tutta la regione. Egiziani e sudanesi contro l’Etiopia del premier Abiy Ahmed, la cui ciclopica diga GERD, sul Nilo Azzurro, minaccia le loro già difficili produzioni agricole.
Il petrolio del Sudan
Pechino ha sempre contato sul Sudan come una discreta fonte di petrolio, nonostante il grosso dei pozzi sia rimasto sul territorio del secessionista Sud Sudan. Seguono nell’ordine, con cifre assai minori, Egitto, Arabia Saudita e Russia. Ma attenti, tra i fanalini di coda, anche Turchia e Stati Uniti.
Base navale per Mosca oltre La Siria
Il 9 febbraio 2023, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha siglato con Al Bhuran ed ‘Hemetti’ l’accordo per la costruzione di una base navale militare russa a Porto Sudan, il maggior sbocco del paese sul Mar Rosso. Guarnigione fissa di 300 militari, attracchi fino a 4 grandi navi o sottomarini anche a propulsione nucleare. La somma di Tartus, base in Siria, e una a Porto Sudan, cioè a Nord e a Sud di Suez. Tenaglia strategica perfetta.
Oltre ‘alle chiavi delle miniere d’oro del Darfur’ che sarebbero già ora nelle mani della ‘Wagner Group’.
Guerre in eredità
Per ben trent’anni, dal 1989 al 2019 il paese è stato sotto la dittatura del presidente Omar Al Bashir, forte dell’appoggio di correnti estremiste islamiche capeggiate da Hassan Al Turabi. Il dittatore affrontò due guerre interne per assicurare alla componente arabo-islamica la supremazia sulle minoranze etniche di ceppo nero africano. Terrore per le popolazioni locali Fur, Masalit e Zaghawa e le bande di ‘Janjawid’, predoni a cavallo passati ai veicoli fuoristrada.
Solo in Darfur, dal 2003 al 2020, almeno 300.000 morti mentre si combatteva un’altra sanguinosa guerra nel Sudan meridionale, allora unito, dove i neri cristiano-animisti ottennero l’indipendenza nel 2011.
‘Janjawid’ le Rapid Support Forces
Proprio dagli agguerriti Janjawid ebbero origine leRapid Support Forces, forze di supporto rapido, fondate nel 2013 ancora sotto il regime di Al Bashir. La dittatura crollò nel 2019 a seguito di crescenti manifestazioni popolari dovute alla crisi economica e Al Bashir venne rovesciato da un golpe e imprigionato dai militari.
Le forze in campo
Secondo il Military Balance 2023, le Sudan Armed Forces, escluse le RSF, sarebbero di circa 104.300 uomini. Gendarmeria e forze paramilitari comprendono altri 40.000 effettivi inclusa una divisione di Guardie di frontiera. Più o meno gli stessi effettivi attribuiti attualmente alle RSF. Altri 100mila se non addirittura 150.000. Un vero e proprio esercito ma senza aviazione.