Lo spettro della guerra nucleare sull’Europa
Michele Marsonet su Remocontro
Stoltenberg, il segretario generale Nato in uscita, insegue Putin sulla folle strada della minaccia atomica: ‘Qualsiasi uso di armi nucleari avrà conseguenze serie per la Russia‘. Considerazioni sconsiderate doppie. Poi frena su Kiev nella Nato a calmare le acque in casa europea, inquieta per temuti eccessi Usa. “Qualsiasi decisione sull’adesione alla Nato da parte dell’Ucraina deve essere concordata da tutti gli alleati“.

Il punto di rottura è stato quasi raggiunto
Vladimir Putin, dopo aver proclamato l’annessione di quattro regioni ucraine (tra l’altro, non conquistate interamente) alla Federazione Russa, ha ancora minacciato il ricorso alle armi nucleari qualora tali regioni venissero attaccate. Sarebbe quindi ragionevole ammettere che è arrivato il momento di fermarsi e riflettere seriamente.
La pericolosa rincorsa Nato di Kiev
C’è un quesito che incombe minaccioso: può l’Europa correre il rischio dell’olocausto nucleare per difendere l’integrità territoriale ucraina? Zelensky evidentemente pensa di sì, e infatti ha chiesto l’adesione immediata alla Nato. Richiesta che, se accolta, potrebbe precipitarci subito in un baratro senza fondo.
Coloro che conoscono bene Putin sanno che deve essere preso sul serio, anche se i più pensano che il suo sia solo un bluff. Lo ha notato per esempio Angela Merkel, che può vantare una lunga frequentazione con il leader del Cremlino. Sottovalutarlo diventa, adesso, molto pericoloso.
Atomiche ‘tattiche’ ma radiazioni per tutti
Si è ormai compreso che le armi che intenderebbe usare sono le cosiddette “bombe nucleari tattiche”, di piccole dimensioni, destinate a colpire le truppe nemiche sul campo di battaglia. Ma è chiaro che le conseguenze del loro utilizzo sarebbero comunque esiziali, giacché il fall-out radioattivo non dipende dalle dimensioni dell’ordigno.
Guerra americana sempre lontana da casa loro
Non solo l’Ucraina, ma tutta l’Europa (Russia inclusa), ne verrebbe coinvolta in pieno e per un tempo non certo breve. E gli stessi americani, che continuano a inviare agli ucraini armi sofisticate, subirebbero conseguenze nonostante la lontananza geografica del loro territorio. Biden ha detto che gli Usa reagirebbero, ma non si vede perché dovremmo sentirci tranquilli sapendo che Washington “la farebbe pagare” a Mosca. A noi europei, infatti, come minimo toccherebbero tanto le bombe atomiche russe quanto quelle americane.
E anche Kissinger frena
Fu il 99enne ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger a introdurre, nel lontano 1957, il concetto di “armi nucleari tattiche”, con un articolo che segnò l’inizio della sua brillante carriera universitaria (e poi diplomatica). Ora Kissinger invita alla prudenza, affermando che lo stallo si può sbloccare solo ricorrendo alla diplomazia. Strada, però, difficile da percorrere. Putin parla addirittura di “satanismo occidentale”, attribuendo al conflitto un carattere mistico-religioso.
Zelensky insiste ma ora esagera
Zelensky, dal canto suo, non si rassegna a rinunciare ai territori annessi dai russi con referendum fasulli, e intende continuare la lotta forte dei successi conseguiti sul campo dal suo esercito con l’aiuto occidentale. Questo fa capire quanto siamo vicini a una guerra nucleare vera, che farebbe precipitare il nostro continente (e il mondo intero) in una situazione che definire “drammatica” è dir poco. Al suo confronto, la temuta recessione economica, che in pratica è già in atto, appare cosa di poco conto.
Estremismo russo-ucraino, ma Biden?
Non si sa se sarà possibile fermare questa folle corsa. Ragionare con Putin, che si è detto disponibile a trattare, si può, ma solo alle sue condizioni. Lo stesso – da quanto si comprende – vale per Zelensky, e a questo punto conta poco che uno sia l’aggressore e l’altro l’aggredito. Ciò che importa è salvare l’Europa da un destino che più tragico di così non potrebbe essere, e si può fare solo se qualcuno rinuncia a perseguire i propri obiettivi.
Non si stanca di ripeterlo Papa Francesco, i cui continui appelli alla pace necessaria restano purtroppo inascoltati. Anche se la sua è l’unica strategia in grado di salvarci.
Se Mosca decidesse di usare l’arma nucleare…
di Alessandro Gilioli (da Facebook)
L’altro giorno ho chiesto qui su Fb, alla mia variegata bolla tendenzialmente di sinistra, cosa bisognerebbe fare come Occidente e come Nato se Mosca decidesse di usare l’arma nucleare, seppure nella sua versione “tattica”. O meglio: che cosa vorremmo che i nostri governanti facessero.
Chi è interessato può scorrere le quasi 400 risposte, io le ho lette tutte.
Ne ho tratto – dalla mia bolla s’intende – due conclusioni.
Primo: l’indicibile non è più tale, anzi è diventato accettabile.
Sono cresciuto nella Seconda Guerra Fredda, quella della prima metà degli Anni 80, che raggiunse il suo punto più rischioso con l’abbattimento di un volo civile New York-Seul colpito da un missile sovietico.
Anche allora, come adesso, si parlò di una possibile guerra atomica. Ma l’ipotesi era, appunto, nella categoria dell’indicibile, dell’apocalittico assoluto, come nel film The Day After (1983).
Ora invece è considerata da molti un’opzione percorribile, che fa parte del gioco.
Allora c’era un movimento pacifista che trovava grande spazio ed eco nel dibattito pubblico: ora no, chi ci prova è appestato e tacciato di essere un “putinversteher”.
Allora, in Italia, c’era – tra i tanti – un grande scrittore come Carlo Cassola che si spendeva con ogni forza contro la Terza Guerra Mondiale arrivando al parossismo: oggi non c’è intellettuale che abbia il coraggio di sussurrare alcunché (tranne forse il Papa, se vogliamo iscriverlo a quella dubbia categoria).
Secondo: nemmeno la paura è più tale. Anzi. Si ha una paura assai relativa di uno scontro atomico.
Forse perché lo si spera limitato ad aree lontane, insomma il famoso nucleare tattico: un bel “cazzi loro che stanno lì”, non esattamente coerente con sette mesi di solidarietà con il popolo invaso.
Tra l’altro, gli stessi che a inizio conflitto risolvevano tutta la vicenda ucraina dicendo che “Putin è pazzo” ora ci dicono che invece non è così pazzo da sganciare l’atomica, e questo del nucleare è tutto un bluff, se solo ne parliamo facciamo il suo gioco.
Ora, tralasciando che da alcuni decenni la psichiatria ha abolito la semplicistica categoria di “pazzo”, beati coloro che sono così sicuri che Putin non la userà mai: non ho capito su quali basi fondano queste certezze. Senza dire che, dopo averci spiegato che l’unica soluzione era detronizzare Putin, oggi ci si accorge che gli eventuali sostituti sono tutti peggiori, più falchi, più indifferenti a qualsiasi etica (o “più emotivi”, come direbbe Peskov): quindi con meno dubbi a usare l’atomica.
In sintesi: lo scontro nucleare mi pare sdoganato nel pensiero e nel novero delle possibilità; la paura del fungo atomico si è sfumata e comunque in caso non riguarda noi, ma gli ucraini, magari i russi e se il vento gira male qualcun altro lì intorno; e comunque non si deve nemmeno provare ad avviare un dibattito su cosa fare se Mosca lo scatena, perché tanto è un bluff.
Tutto bene, no?
Fazzoletti

di Massimo Marnetto
Esiste una responsabilità sociale dei ricchi? Il liberismo chiede loro solo di produrre ricchezza e per questo non vanno ”disturbati” con tasse progressive. La ricchezza poi – spontaneamente – gocciolerà in basso a favore delle classi medio-basse. Questa tesi è stata falsificata da molti fallimenti, ma la premier di destra britannica Truss ha voluto lo stesso applicarla, tagliando le tasse agli ultra ricchi e provocando così la caduta della sterlina, salvata solo da un massiccio intervento della Banca Centrale Britannica. La morale è semplice: solo la progressività rende la finanza pubblica sostenibile e affidabile per i creditori. Lo ha capito anche il presidente della Confindustria, Bonomi, che ha definito ”immaginifica” la tassa unica per ricchi e poveri.
Basterà tutto questo per convincere Salvini ad abbandonare la flat tax? Con i ragionamenti perderemmo tempo. L’indole mistica dell’uomo suggerisce di chiedere un miracolo a San Giuseppe da Copertino, un minore del ‘600 detto l”’Idioto” per la sua testa così leggera da permettergli di volare, divenuto il protettore degli stupidi. Se ci impegnamo tutti nella supplica al Santo Frate, Matteo vedrà la luce. Certo, non dirà mai: ”Scusate, ho detto una idiozia”, ma magari esalerà un più sofferto ”non ci sono le condizioni”. Frase che a noi basterà per festeggiare il miracolo, agitando i fazzoletti bianchi.
A proposito di “uno vale uno”

di Giovanni Lamagna
Non ci sono dubbi che in democrazia il voto di ogni cittadino debba valere lo stesso che il voto di tutti gli altri cittadini. La nostra Costituzione, all’art. 48, così recita: “Il voto è personale ed uguale, libero e segreto.”. In questo senso è del tutto vero che in democrazia, come dicono (o dicevano i grillini) “uno vale uno”.
Quello che vale per i votanti, ovverossia per quello che viene comunemente definito “l’elettorato attivo”, non vale, non può valere, però per gli eligendi e gli eletti, cioè per “l’elettorato passivo. Per aspirare a rappresentare il popolo in un’istituzione parlamentare di qualsiasi livello o addirittura in quelle di governo (anche qui di qualsiasi livello) occorrono (e, quindi, dovrebbero valere) delle competenze.
Mentre tutti hanno il diritto al voto (e in questo senso “uno vale uno”), non tutti hanno (o dovrebbero avere) il diritto a rappresentare il popolo o a governare le istituzioni (da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” decade). Di certo ciascun cittadino – in democrazia – ha il diritto di scegliersi i suoi rappresentanti e governanti; e in questo senso il suo voto vale quello di ogni altro cittadino (“uno vale uno”).
Ma ciascun cittadino ha anche il diritto (e io aggiungerei persino il dovere morale) di scegliersi rappresentanti e governanti che siano all’altezza del compito, al quale vengono eletti. Che abbiano quindi delle competenze specifiche e speciali, superiori (almeno in ipotesi) a quelle degli altri comuni cittadini; e in questo senso “l’uno vale uno” non vale più, decade.
Possiamo concludere, dunque, che, nel momento in cui vota, il cittadino comune delega a persone che egli ritiene idonee, quindi competenti, parte del suo potere di cittadino, uguale nei suoi diritti e doveri a tutti gli altri cittadini. In qualche modo, dunque, mette le persone elette, per quanto in maniera provvisoria e quindi revocabile, su una posizione più elevata rispetto a sé stesso, le riconosce in una qualche misura “superiori”. La democrazia ha bisogno dunque di eguaglianza (tutti i cittadini valgono uno nel voto e sono eguali in questo agli altri cittadini), ma anche di distinzioni e (diciamolo pure) di disuguaglianza di ruoli.
Ci sono alcuni cittadini che ricoprono (perché eletti) incarichi superiori a quelli degli altri cittadini comuni e per fare questo hanno (o dovrebbero avere) delle competenze particolari. La democrazia ha quindi bisogno delle competenze (per cui non è vero che “uno vale uno”) come ha bisogno dell’uguaglianza (ed è quindi vero che “uno vale uno”).
Perché i due principi riescano a conciliarsi occorre che tra cittadino elettore e cittadino eletto ci sia fiducia, che il primo si fidi del secondo. E qui casca l’asino ed è qui che la democrazia spesso si inceppa. Perché spesso il meccanismo del voto di delega si fonda non sul riconoscimento delle reali competenze di chi mandiamo a rappresentarci o governarci, ma su una sorta di scambio (più o meno clientelare) tra chi elegge/vota e chi viene eletto/votato.
Abbiamo così una classe politica che viene indubbiamente scelta dal popolo (quindi formalmente del tutto legittima), ma di cui il popolo stesso poi non ha fiducia. Perché è stata eletta con meccanismi inadeguati, non del tutto limpidi, se non proprio disonesti. Una classe politica delegittimata nel momento stesso in cui viene scelta, votata: un po’ come il cane che si morde la coda.
Di chi la colpa? Di chi si fa eleggere in questo modo e in qualche modo (più o meno grave) corrompe il popolo o di chi (il popolo) rinuncia al suo potere di delega e si fa corrompere? A mio avviso, di tutti e due; ma in prima istanza la colpa è del popolo che non elegge suoi rappresentanti all’altezza del compito che affida loro.
Ogni popolo, dunque, ha in buona sostanza (almeno per me) la classe politica che si merita.