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Reader’s – 23 maggio 2023

rassegna web di nandocan magazine

Quanto rende ai partiti di governo controllare la RAI? Un punto di vista originale ( e certamente discutibile) sull’influenza della gestione e della comunicazione politica del servizio pubblico sull’elettorato. (nandocan)

La RAI lottizzata

di Gilberto Squizzato

La DC ha avuto il pieno controllo della RAI per trent’anni ma non è riuscita a impedire i cambiamenti culturali e politici del paese. Questo vuol dire che la propaganda un po’ serve, ma non basta. Mi pare una constatazione ovvia, inconfutabile, e voglio proporla agli amici di facebook proprio mentre infuria la polemica politica sulla famelica smania di Giorgia Meloni di appropriarsi dei vertici del servizio pubblico mettendo su quelle poltrone direttori e dirigenti di stretta osservanza FdI o comunque pronti a mettersi al suo servizio.

La faccenda non mi scandalizza. Per 35 anni in RAI ho visto il servizio pubblico trattato come un bottino dai vincitori di turno e la cosa non cambierà neppure ora. Chi ha preceduto Meloni ha sempre fatto così e il mio precedente post stigmatizza la miopia imprudente della sinistra che per tutti gli anni in cui è stata al governo non ha trovato il tempo di varare una vera riforma della RAI che la mettesse al riparo dalle scorribande dei potenti di turno. Affidandone la gestione a un ente terzo e totalmente autonomo (per esempio una Fondazione governata da figure di assoluta competenza espresse dal mondo della cultura, dell’università, della scienza, dello spettacolo).

Mi sembra giusto però allargare l’orizzonte e introdurre in questa riflessione una domanda che mi obbliga a tirare in ballo il mai definitivamente archiviato pensiero di Marx. Il quale, come ben sappiamo, vedeva la cultura e le sue molteplici espressioni come un prodotto della sottostante e determinante struttura economica e produttiva. Salvo dover ammettere che pur nelle circostanze economicamente più sfavorevoli non si sarebbe mai potuto estinguere il germe del pensiero critico, costituendo la sua stessa filosofia politica (germinata in pieno trionfo del capitalismo) la prova di questa capacità degli oppositori del capitale di infiltrare nella società elementi di pensiero critico capaci di dare coscienza alle classi subalterne e oppresse e promuovere progressivamente l’egemonia del pensiero dominante: quello dei padroni.

MI permetto di far osservare alla sinistra…

Ora è vero che molte cose sono cambiate dai tempi di Marx, ma inalterata resta la questione (su cui molto lavorò anche Gramsci) dell’egemonia culturale dentro la società. Portando il discorso sulla tormentata vicenda RAI che non ha mai cessato di provocare aspre discussioni proprio perché la RAI è finanziata dal canone e arriva in tutte le case, mi permetto di far osservare alla sinistra che oggi insorge scandalizzata contro i tentacoli di Meloni, senza peraltro avere la possibilità di fermarne la vorace aggressività, che almeno trent’anni di predominio effettivo della sinistra in RAI (seppur con le interruzioni dovute al prevalere di Berlusconi in alcune fasi precise) non ha impedito il tracollo della stessa sinistra e la sua radicale sconfitta nelle elezioni politiche del settembre 2022. Riducendola a un ruolo minoritario così lontano dall’autosufficienza sognata da Veltroni con la sua “vocazione maggioritaria del PD”.

Piazzare direttori, giornalisti, creativi, conduttori e star del piccolo schermo opzionati dai vertici del PD non è infatti bastato a creare un’egemonia del pensiero politico del PD ( o di una sinistra per quanto incerta e vaga) soprattutto nel pubblico meno acculturato per il quale fu predisposta decenni fa dalla DC la famosa formula editoriale della ”tv nazional-popolare”, prontamente fatta propria da chi ne prese successivamente il posto ai vertici della politica nazionale.

Demerito dei lottizzati o scarsa influenza della tv?

Sicchè mi vien quasi da concludere che: o quei direttori, giornalisti, creativi, ecc, che il PDS/DS/PD ha sponsorizzato e promosso nel lungo periodo in cui ha governato a maggioranza la RAI non sono riusciti per demerito proprio a costruire una TV e una radio pubbliche capaci di creare una “coscienza critica” della realtà (una formula diversa per dire una vera “egemonia del pensiero di sinistra”) in uno strumento di produzione e diffusione culturale così potente; oppure che la propaganda televisiva non ha tutto quell’immenso potere di persuasione che si continua a credere (perciò non ce l’ha neppure il polo di Berlusconi, come non l’hanno i tanti canali commerciali privati raggiungibili col telecomando).

In questa seconda ipotesi, vorrebbe dire perciò che non sono TV e radio (e probabilmente neppure la rete) a condizionare la mentalità diffusa e dunque i risultati elettorali, perché sarebbe vero il contrario: che gli spettatori vanno semplicemente a cercarsi i programmi e i social a loro congeniali. E, in ultima analisi, lo share dei singoli programmi/prodotti mediatici funzionerebbe non come misuratore della penetrazione della propaganda politica nei palinsesti, ma solo come “test di sondaggio” dei gusti (anche politici) degli spettatori (votanti e non votanti), anticipando molto per tempo i risultati elettorali.

Forse la propaganda in tv non serve a nulla

Ho lavorato in RAI per 35 anni convinto di potere dare un piccolo contributo alla formazione di una “coscienza critica” in qualche milione di spettatori. Forse è stato vero il contrario: che a vedere i programmi e i telegiornali che hanno questa aspirazione sono solo coloro che già di quel pensiero critico sono in possesso e che la propaganda in TV non serve a nulla, se non a dare ai vari segmenti del pubblico programmi e Tg in cui vedono rispecchiati i propri paradigmi culturali, e dunque politici: esattamente come quando si va in libreria ognuno compra (quasi) soltanto i libri e gli autori in cui si riconosce.

Se così fosse, Meloni potrà mettere ai tg, ai programmi, alla fiction tutti gli amici che vuole, ma non questo non basterà a far crescere il suo consenso elettorale. E potrebbe anche vederlo decrescere, come capitò alla DC e al PSI che per decenni controllarono il servizio pubblico, illudendosi che questo bastasse a consolidare la loro egemonia. Chissà… forse non è la TV a cambiare la testa della gente ma è la gente (cioè gli elettori) a scegliersi tv, radio, e anche i social, a proprio piacimento, come fa per i giornali all’edicola?

Perché si è di destra o di sinistra?

Che cosa determina dunque, o condiziona in modo determinante, l’opzione politica di fondo? Qualcosa che giace nel profondo, se non addirittura nell inconscio, individuale e/o collettivo? Perché si è di destra, fascisti, conservatori, reazionari, o il contrario di tutto questo?

*****Obiezioni?

Sono stato anch’io a lungo in RAI come Gilberto Squizzato e provo ad avanzarne un paio: la propaganda televisiva influisce ma non tanto da impedire all’elettore di guardare nelle sue tasche e considerare in primo luogo la sua esperienza diretta; considerare di sinistra la gestione renziana del PD come quella dei suoi simpatizzanti in RAI sarebbe quanto meno avventato. (nandocan)


Fitto “unfit”

di Massimo Marnetto

Fitto è ”unfit”, inadatto. Il Ministro per gli Affari Europei ha paura di rimanere sommerso dagli inadempimenti del PNRR. Sono mesi che propone modifiche, rimodulazioni, riduzioni. Afferma che è impossibile fare tutto quello che chiede l’Europa, ma poi smentisce.

Si vede palesemente che il ruolo a cui è stato nominato richiede competenze che non ha. Ovvero capacità di organizzare e tenacia nel credere nel Piano. Che non sono solo soldi facili, ma fondi difficili che l’Europa ci ha messo a disposizione per modernizzare il Paese.

Ma Fitto non capisce la logica portante del PNRR e annaspa, accumulando ritardi. E noi, oltre al danno dei mancati investimenti, subiamo anche l’angoscia empatica nel vedere un incapace che sta annegando in vasca, mentre tutti gli chiedono di fare un buon tempo nella gara di nuoto. Fate qualcosa: non sa nuotare.


Biden rilancia sull’Ucraina per paura della Cina nella guerra dei microchip

Piero Orteca su Remocontro

Gli F16 Usa all’Ucraina e ‘lo stallo coreano’, destinato a durare anni. Ucraina martire e Russia ed Europa prigioniere. Sembra un incubo e si rivela un progetto strategico politico statunitense per conservare il suo primato economico militare sul mondo. Anche a costo di dover ora arrotondare qualche spigolo con Pechino, perché non ci sono più i dollari per un’altra guerra vera.
Meglio discutere e cercare qualche accordo sul futuro tecnologico del mondo attraverso i microchip da portare via da Taiwan

La lingua batte dove il dente duole

Nella conferenza stampa seguita al vertice del G7, il Presidente Biden ha voluto chiarire quale sia la sua maggiore preoccupazione attuale. Inquietudine quasi ossessiva, contenere la travolgente crescita economica della Cina e il suo oligopolio tecnologico in certe aree, come quella dei semiconduttori. Per la Casa Bianca, non è solo una ‘gara’ tra grandi potenze. Il colosso asiatico sta trasferendo velocemente, sul terreno geopolitico, tutti i successi del suo apparato produttivo e commerciale. E di questo passo, rischia di oscurare l’Occidente. Anzi, peggio, di tenerselo stretto a un guinzaglio: quello della catena di approvvigionamento globale dell’economia.

Cina ‘fabbrica del mondo’

La Cina sta diventando la ‘fabbrica del mondo’ (con l’India a seguire) e tutti gli altri Paesi cominciano a non poterne fare a meno. Ma questo l’America non lo permetterà afferma Biden. Quindi, occorre differenziarsi o, come dicono i tecnici, ‘disaccoppiarsi’. Per la verità, Biden, cercando di addolcire la sfida minacciosa, ha anche aggiunto che non è necessario arrivare a un ‘disaccoppiamento totale’. ‘Bisognerà vedere come vanno le cose’. In economia e in politica (se lui sarà ancora presidente, ad esempio). Perché, alla fine, la vera materia del contendere è, la leadership planetaria del modello culturale occidentale e la ‘unipolarità’ degli Stati Uniti, sempre più contestata.

Dopo il neo isolazionismo trumpiano

Biden, rispetto al neo-isolazionismo trumpiano, ha completamente rivoltato la geometria delle relazioni internazionali, obbligando, in un certo senso, l’Europa a seguirlo su questo terreno. Oggi, Washington gestisce in maniera assoluta, dettando le sue condizioni al resto dell’Occidente, le aree di crisi più scottanti. Dall’Ucraina al Mar cinese meridionale, passando dall’Africa al Medio Oriente, fino all’Indo-Pacifico.

‘Coercizione economica’

Biden ha sottolineato ripetutamente il termine ‘coercizione economica’, riferito a una presunta concorrenza sleale da parte della Cina. In effetti, il Presidente mischia verità (come la mancanza di garanzie per i lavoratori) a palesi insinuazioni, quando si riferisce, per esempio, a una sorta di ‘terrorismo geopolitico’, che sarebbe utilizzato da Pechino per convincere i Paesi più deboli a collaborare. Le realtà specifiche sono diverse e andrebbero studiate una ad una. Leggendo con attenzione l’intervento del Presidente, salta poi agli occhi un elemento ormai diventato il ‘core’ della sua posizione anti-cinese. E cioè, il dialogo nel campo scientifico e della ricerca. Gli Stati Uniti, adducendo motivi di ‘sicurezza nazionale’, hanno votato leggi molto severe sull’esportazione di tecnologia verso Pechino.

La conoscenza arma assoluta

In questo modo la ‘conoscenza’ diventa un’arma assoluta, per farsi una guerra non dichiarata. A ottobre scorso, per esempio, Biden ha fatto introdurre una norma che impedisce la vendita ai cinesi di ‘microchip di fascia alta’. Lo scontro commerciale più violento, con Xi Jinping, è cominciato nel 2018 all’epoca di Trump, con forti dazi doganali americani, determinato dal rosso della bilancia commerciale. Ma la cronicità del deficit dell’import-export Usa ha poco a che vedere con la ‘coercizione economica’. I problemi sono altri e ben più profondi. Comunque sia, con l’arrivo al potere dei Democratici, fautori di una politica estera molto ideologizzata, i rapporti con Pechino sono addirittura peggiorati.

Alcuni esponente di spicco, che notoriamente odiano la Cina con tutte le loro forze (come Nancy Pelosi o Hillary Clinton), hanno poi contribuito a rendere ancora più tese le relazioni. La guerra in Ucraina e le sanzioni contro la Russia, infine, sono state il colpo di grazia alla speranza di ricreare il clima di collaborazione che esisteva tra i due Paesi.

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La maxi-multa a Meta e quel vento che sta cambiando in Europa

Michele Mezza su Huffington Post

La multa di 1 miliardo e 200 milioni di euro comminata a Meta, il gruppo proprietario di Facebook e capitanato da Mark Zuckerberg cambierà in ogni caso la storia contemporanea. Non solo e non tanto perché si tratta della sanzione pecuniaria più ingente della storia comunitaria, quanto perché è destinata a mutare il meccanismo stesso delle relazioni fra singoli stati e le grandi piattaforme della Silicon valley e, più in generale fra Europa e Stati uniti.

La decisione dell’Unione, comminata per altro dalla magistratura irlandese, quella ritenuta per altro più morbida e accondiscendente con i grandi marchi della Silicon Valley, punisce una funzione essenziale di questi gruppi digitali: il trasferimento metodico di ogni dato raccolto su ogni utente europeo negli Stati Uniti. Diciamo banalmente che stiamo per la prima volta applicando meticolosamente il DGPR, il regolamento europeo che da 4 anni dovrebbe disciplinare il mercato digitale.

La sanzione colpisce il cuore del sistema, quella pulviscolare profilazione che permette a ogni service provider di radiografare personalità e comportamenti degli utenti, trasformando poi i dati in istruzioni per gli inserzionisti. In base a questa dinamica, l’ingente multa va proprio a sanzionare l’illecito guadagno che in questi anni ha permesso a Facebook di diventare una potenza finanziaria planetaria.

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