Noè 2020

(“Noè, un arcobaleno!”, foto Alessandro)
Rannuvolato in volto
taceva il cielo sulle nostre ubbie
per questioncelle vane e dispettose
piccole o grandi cose
che stentavamo ancora a dipanare,
quando dall'alto prese a brontolare
prima in sordina, poi sempre più forte:
nessuno giochi in borsa con la morte ,
per la vita si chiudano le porte.

Tuonava il cielo sulle nostre ubbie
per polemiche vane e dispettose
piccole o grandi cose
che stentavamo ancora a dipanare,
quando dall'alto prese a diluviare
la lavata di capo universale.

(21 dicembre 2020)

Leggi anche:

  • Reader’s – 5 giugno 2023 – rassegna web di nandocan magazine

    I poveri e l’ideologia del merito

    Luigino Bruni su Neap

    Le dimissioni del senatore Carlo Cottarelli perché, tra l’altro, non vedeva il suo partito abbastanza deciso nel sostenere la meritocrazia, ha posto di nuovo l’attenzione sul significato e sull’ideologia del merito nel nostro tempo. Merito è sempre stata una parola ambigua, perché profondamente legata al fascino che il merito esercita su tutti noi. Tutti vorremmo meritarci i nostri successi (meno meritarci gli insuccessi), nessuno ama pensare che la bella carriera che ha fatto sia frutto soltanto della fortuna e di raccomandazioni.

    Se poi andiamo a vedere come il merito viene usato, ieri e oggi, nelle scelte concrete dell’economia e della società, ci accorgiamo che esso non è stato quasi mai dalla parte dei poveri, che sono stati spesso scartati e poi colpevolizzati perché considerati demeritevoli, convincendoli così di non essere soltanto poveri ma anche colpevoli e maledetti. 

    Merito deriva da merere, cioè guadagnare, da cui derivano anche mercede e meretrice. La meritocrazia è l’ideologia del merito che, come tutte le ideologie, prende una parola che ci piace e ci affascina, la manipola e la perverte. E così, in nome della valorizzazione di chi è meritevole e povero, l’ideologia meritocratica è diventata la legittimazione etica della diseguaglianza. 

    Così la diseguaglianza è diventata un bene

    È bastato soltanto cambiarle nome e la diseguaglianza da male è diventata un bene. I passaggi sono stati tre: 1. considerare i talenti delle persone un merito e non un dono; 2. ridurre i molti meriti delle persone a quelli più semplici da misurare dalle società di consulenza (chi vede oggi i «meriti» della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3. leggere il talento come merito porta a remunerare diversamente i meriti e così si amplificano le distanze tra le persone.

    L’equivoco sul merito lo troviamo già dentro la nostra stupenda Costituzione, che all’articolo 34 recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Non a caso il nuovo governo si è basato su questo articolo per giustificare il cambiamento del nome del ministero «dell’Istruzione» in «dell’Istruzione e del merito», insinuandosi nel pertugio lasciato aperto dall’ambiguità di quell’articolo 34. 

    Talento e impegno

    Gli amanti del merito dicono: «il merito non è solo talento, è una combinazione di talento e impegno, perciò quello che si premia è l’impegno personale». Questi meritocratici dimenticano però l’elemento cruciale: anche potersi impegnare non è merito, è soprattutto dono. Tornare a casa da scuola e avere tempo per fare i compiti, invece di dover lavorare, non è un merito. Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che ciò che siamo e diventiamo è per il 90% dono e per il 10% merito; la meritocrazia, invece, ribalta questa percentuale, e fa di quell’esile 10% la pietra angolare dell’edificio della giustizia.

    La scuola deve essere, come istituzione, anti-meritocratica: deve cioè ridurre quelle asimmetrie dei punti di partenza che non hanno nulla a che fare con il merito dei nostri bambini. 

    Un sistema sociale che premia chi è già capace non fa altro che lasciare sempre più indietro i meno capaci, che in genere non sono tali per demerito ma per le condizioni di vita. Don Milani, di cui festeggiamo quest’anno il centenario, queste cose le sapeva molto bene. Sapeva che i suoi ragazzi di Barbiana non erano demeritevoli: erano soltanto poveri; non erano colpevoli, erano soltanto poveri. Che questo centenario ci faccia riflettere sull’ideologia del merito che sta diventando la nuova religione del nostro tempo, una religione senza gratuità e senza Dio.


    L’Ue vota l’economia di guerra: «Fondi Pnrr per le armi». Dal welfare al warfare

    L’Europa corre verso un’economia di guerra. Il Parlamento europeo ieri ha approvato a larga maggioranza (446 sì, 67 no e 112 astensioni) di impiegare i fondi per la ‘Ripresa’ dal dopo Covid a costruire armi. Piano di Asap (Act in Support of Ammunition Production). Destre a favore, ma il governo italiano promette: non li useremo ma pochi ci credono.
    Il Pd si spacca: 10 sì, 4 astenuti e un no. Fratoianni: se si è contrari si vota contro. I dem sotto attacco di destre e terzo polo per ‘difetto di atlantismo’.

    L’Europa verso un’economia di guerra

    ‘Negoziato’ a risultato già venduto con i 27 paesi per arrivare a luglio al voto finale che consentirà ai paesi Ue di utilizzare anche i fondi del Pnrr e di Coesione per produrre munizioni e armi. Oltre alla minima dotazione prevista dal regolamento (500milioni) la novità è che i paesi potranno dirottare miliardi del Pnrr (che era stato pensato per il welfare e la transizione ecologica dopo la pandemia) sulla produzione di armi.

    Piccoli pentimenti a sinistra

    Anche il gruppo socialista, dopo che gli emendamenti voluti dal Pd per escludere il Pnrr dai fondi per gli armamenti erano stati bocciati, ha dato indicazione per il sì al regolamento. Un sì motivato anche dalla necessità, hanno spiegato, di continuare a fornire armi all’Ucraina e, nel contempo, riempire arsenali sempre più vuoti. Scelta politica pesante con 95 sì, 10 no e 20 contrari. Anche tra chi vuole sostenere Kiev, dubbi sulla forsennata corsa al riarmo. Il No di Verdi e M5S.

    Il Pd spaccato e le reazioni che verranno

    Il Pd si è spaccato ‘rumorosamente’ segnalano a sinistra. Tra gli 8 che hanno votato sì, il capogruppo Brando Benifei e la vicepresidente del parlamento Pina Picierino, oltre alle deputate Tinagli e Gualmini e all’ex ministro De Castro. Sei gli astenuti, tra loro Camilla Lauretidella segreteria di Schlein (la responsabile agricoltura), Pietro Bartolo e l’ex pm antimafia Franco Roberti. Mentre Alessandra Moretti e Patrizia Toia, che risultavano astenute, hanno poi spiegato che si è trattato di un «errore materiale» e che il loro era un voto a favore. Pasticcio a consensi politici a perdere.

    Guerra onnivora e piccola politica

    ‘Scellerata decisione attesa’, annota il poco di stampa critica sul provvedimento,  rispetto al vuoto politico europeo su fermare il disastro della guerra russo-ucraina. Anzi, di male in peggio, visto che l’unica prospettiva, emersa anche ieri dal vertice internazionale in Moldavia, è l’ingresso dell’Ucraina nella Nato: «Alla criminale guerra di Putin si risponde con la guerra atlantica», annota il Manifesto, il solo o tra i pochi quotidiani Ue ad approfondire la reale corsa al riarmo, perché è di questo che si tratta.

    Di fatto ieri, altra osservazioni critica, l’Europarlamento ha votato l’autorizzazione ad un prelievo forzato, ad ‘una distrazione di fondi’ che non è prevista nemmeno dai Trattati europei. Trattasti che impediscono di finanziare con soldi comunitari le industrie militari nazionali.

    La piccola Ue

    La decisione presa – giustificala come ti pare-, è di attingere, per la produzione di armi, ai fondi destinati alle Regioni per sostenere le politiche sociali, il lavoro e il diritto allo studio, l’ambizione ambientalista della transizione ecologica e, dopo tre anni di pandemia, il nuovo, ineludibile, assetto della sanità, in più l’attenzione al dramma delle migrazioni e al diritto d’asilo. La decisione dell’Europarlamento mette in discussione tutto: sia il fatto che nuovo armamento può essere prodotto utilizzando fondi che erano destinati a migliorare la vita delle persone dopo le costrizioni da pandemia, sia i fondamenti stessi dell’Unione europea.

    Dal welfare al warfare

    Nel vuoto di motivazioni politiche comunque alte, e visto che la prospettiva sembra quella di una guerra di anni se non infinita (un ‘trentottesimo parallelo’ armato nel cuore dell’Europa), l’obiettivo praticato è passare dal welfare al warfare, denunciano i pacifisti ancora annidati tra un minimo di sinistra e un po’ di Chiesa ‘bergogliana’.

    La spesa militare globale ha raggiunto la cifra record di 2.200 miliardi dollari con Stati uniti, Russia, Francia, Cina e Germania della ex ministra della difesa von der Leyen che ha deciso un riarmo di ben 100 miliardi di euro in prima fila. E l’Italia nuova versione che si qualifica sesta nel campionato mondiale degli esportatori di armi.


    La persona sana e la persona malata

    di Giovanni Lamagna

    La vita della persona che possiamo definire “sana” ha trovato un delicato, complesso, precario, sempre instabile equilibrio tra la spinta che le proviene dagli istinti, dalle emozioni e dai sentimenti, i suggerimenti, i consigli che le vengono dalla ragione e le censure, i divieti, i “comandi”, che le invia (a volte, impone) il contesto sociale in cui vive.

    Quando questo difficile equilibrio non viene trovato o, ad un certo momento della vita, salta, quando cioè prevale, in maniera unilaterale o anche solo spropositata, una di queste dimensioni sulle altre, la persona si ammala: di nevrosi o, nei casi più gravi, addirittura di psicosi.


  • Reader’s – 4 giugno 2023. Rassegna web di nandocan magazine

    Zelensky: «Ucraina pronta per la controffensiva»

    da Remocontro

    L’Ucraina è pronta a lanciare la sua attesa controffensiva: lo ha affermato il presidente Zelensky in un’intervista al Wall Street Journal. «Crediamo fermamente che avremo successo», ha commentato il leader ucraino da Odessa. Zelensky ha riconosciuto la superiorità aerea russa e la mancanza di protezione da questa minaccia: «Significa che un gran numero di soldati morirà nell’operazione».
    «Ad essere onesti, può andare in vari modi, completamente diversi. Ma la faremo e siamo pronti».

    Pronti alla controffensiva

    Zelensky al Wall Street Journal«Pronti per la controffensiva, avremo successo».L’Ucraina è pronta a lanciare la tanto attesa controffensiva per riconquistare i territori occupati dalla Russia, ha dichiarato il presidente Volodymyr Zelensky in un’intervista pubblicata sabato sul Wall Street Journal. «Crediamo fermamente che avremo successo – ha detto il presidente ucraino -. Non so quanto tempo ci vorrà. Onestamente, può prendere molte strade diverse. Ma lo faremo e siamo pronti». Zelensky il mese scorso aveva dichiarato di aspettare l’arrivo di ulteriori veicoli corazzati occidentali prima di lanciare la controffensiva.

    Nella Nato, ma dopo la guerra

    Sempre al Wall Street Journal, il presidente ucraino ha dichiarato che alcuni Paesi della Nato avrebbero paura della Russia da non volere l’Ucraina nell’alleanza, facendo finta di dimenticare che lo Statuto dell’Alleanza atlantica vieta esplicitamente l’adesione di Paesi in guerra. «Se non saremo riconosciuti o se non ci saranno segnali al vertice di Vilnius, non penso abbia senso per l’Ucraina partecipare al summit». «Non vogliamo diventare membri della Nato durante la guerra. Ora è tardi. Saremmo dovuti diventare parte dell’alleanza 15 anni fa. Siamo consapevoli che non faremo parte della Nato o di altre alleanze di sicurezza durante questa guerra».

    Prima il Donbass

    La Russia controlla ampie porzioni di territorio ucraino nell’est, nel sud e nel sud-est. Un lungo periodo di tempo asciutto in alcune parti dell’Ucraina ha alimentato l’attesa che la controffensiva possa essere imminente. Nelle ultime settimane, l’Ucraina ha aumentato i suoi attacchi contro i depositi di munizioni russi e le rotte logistiche. Sabato, l’esercito ucraino ha riferito in un rapporto quotidiano che Mariinka, nella regione di Donetsk a est, era al centro dei combattimenti. Le forze ucraine avrebbero respinto tutti e 14 gli attacchi delle truppe russe, secondo il rapporto.

    Attacchi missilistici russi senza precedenti

    Il viceministro della Difesa ucraino, Volodymyr Havrylov, in un’intervista a Reuter sostiene che l’obiettivo principale della Russia è quello di fermare la controffensiva ucraina e colpire i centri decisionali con l’uso massiccio di missili balistici da parte della Russia, ma i sistemi di difesa aerea dell’Ucraina hanno dimostrato di essere efficaci al 90% contro gli attacchi russi. «È stata una grande sorpresa per Mosca scoprire che l’efficacia dei loro missili balistici è quasi nulla contro i moderni sistemi di difesa aerea forniti dai partner ucraini».

    Il generale americano Petraeus

    Il generale americano in pensione David Petraeus, parlando alla Bbc, sostiene che l’Ucraina, nonostante la controffensiva, non riuscirà a riprendersi la Crimea: «Tendo a pensare che gli ucraini limiteranno la capacità dei russi di rifornire la Crimea, lungo la costa sud-est, taglieranno quella linea di comunicazione e inizieranno anche il processo di isolamento della Crimea», ma alla domanda diretta sulla possibilità che Kiev possa riprendere la Crimea ha risposto: «Non in questa controffensiva. no». Patraeus ha aggiunto tuttavia che «se (gli ucraini) riescono ad arrivare al punto di iniziare a isolare la Crimea, penso che ciò cambi le dinamiche in modo molto, molto sostanziale».

    Putin sempre al potere per l’ex capo della Cia

    Secondo l’ex capo della Cia, inoltre, «Putin potrebbe resistere al potere anche una volta che la guerra con l’Ucraina sarà finita. Ha ancora il controllo totale», ha detto. «Certamente, ci sono alcune critiche al ministero della difesa, al ministro della difesa Shoigu, al capo di stato maggiore Gerasimov e così via, questo è ammissibile. Ma nessuno critica Putin», ha sottolineato Petraeus, «Penso che probabilmente si aggrapperà a quel potere. Ciò a cui dobbiamo prestare attenzione però sono indicazioni che l’inimmaginabile possa improvvisamente accadere, ovvero il rovesciamento di Putin».

    Medvedev, nessun ritorno all’Europa

    «Nessun ritorno al passato prebellico», scrive il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, sul suo canale Telegram, e riporta la Tass. «Posso dire con certezza che per loro non ci sarà alcun ritorno al `luminoso´ passato europeo. E non solo perché non ci amano e non ci aspettano lì. La Russia è un Paese completamente diverso rispetto al periodo prebellico. Leader, partiti e governi vanno e vengono, mentre la memoria e i valori, cementati con il sangue, rimangono per molto tempo. Non saranno cambiati, né tantomeno distrutti, da nessun nuovo leader, qualunque sia la forza politica che rappresenta», ha scritto Medvedev.

    Serbia, Ucraina e Kosovo

    Il presidente serbo Aleksandar Vucic durante una breve conversazione con il presidente ucraino Zelensky, al vertice della Comunità politica europea a Chisinau la scorsa settimana. Vucic ha sottolineato che la posizione di Belgrado rimane invariata, ossia non desidera imporre sanzioni a Mosca. Vucic lo ha spiegato in un’intervista alla rete televisiva serba Prva Tv, come riportato da Tass, rispondendo alle critiche in Serbia per aver stretto la mano a Zelensky.

    Ha commentato: «Volete che io non stringa la mano al presidente di un grande Paese che non riconosce il Kosovo e che non ha fatto nulla di male alla Serbia? Non siamo mai stati nemici dell’Ucraina e non lo siamo oggi».


    Violenza sulle donne. Il problema riguarda solo gli uomini?

    di Giovanni Lamagna

    Nella rubrica che tiene quotidianamente sul “Corriere della Sera”, quella del 2 giugno 2023, Massimo Gramellini così scrive:

    “La procuratrice della Repubblica Letizia Mannella esorta le donne a non recarsi all’ultimo appuntamento con il maschio violento. Saggia precauzione, ma più che sul comportamento delle vittime vorrei accendere l’attenzione su quello dei carnefici.

    Giulia Tramontano era perfettamente consapevole di quanto balordo fosse Alessandro Impagnatiello: ne aveva scoperto la doppia vita, al punto da accettare un incontro con l’altra ragazza a cui aveva ingarbugliato l’esistenza. Le due donne rimaste incinte dello stesso uomo si erano date appuntamento al bar dove Impagnatiello lavorava.

    Il loro colloquio rappresenta una sorta di manifesto: mentre Giulia e l’altra ragazza parlavano, e parlando acquisivano ancora più coscienza della situazione, era colui che le aveva ingannate a rifiutare il confronto e a scappare dal locale per prepararsi a spezzare sul nascere quel patto di solidarietà femminile, assassinando una delle due «alleate» che ostacolavano il libero dipanarsi del suo egoismo.

    È verità mai abbastanza ribadita che la violenza sulle donne è un problema che riguarda anzitutto gli uomini. Quelli che crescono con una concezione distorta dell’amore, visto come possesso degli altri, anziché come cessione di sé. Se i genitori riuscissero a insegnare almeno questo ai figli maschi, darebbero un rinnovato senso al loro ruolo di educatori. Impresa molto difficile perché l’educazione sentimentale non si trasmette con i libri e tantomeno con le prediche. Funziona solo con l’esempio.”

    Il problema riguarda anzitutto gli uomini ma anche le donne

    Capisco quello che dice Gramellini e lo condivido in buona parte, ma non condivido del tutto il suo pensiero e l’analisi che vi sottende. A mio sommesso avviso, (lo dico, con la voce flebile e con la coda in mezzo alle gambe, che dovremmo avere sempre noi maschi, quando parliamo di questi argomenti) il problema sicuramente “riguarda anzitutto gli uomini”, ma non riguarda SOLO gli uomini, riguarda ANCHE le donne.

    Se, infatti, alcune donne, ancora oggi, si fanno abbindolare da uomini simili, vuol dire che hanno un problema pure loro: questo se vogliamo chiamare le cose col loro nome. L’assassino di cui stiamo parlando (come tutti i maschi che compiono femminicidi) è indubbiamente un “mostro”, ma i mostri non sono del tutto altro da noi, come i pazzi non sono del tutto altro da noi; questo ci ha insegnato Basaglia.

    i mostri anche dentro ognuno di noi

    I mostri stanno anche dentro ognuno di noi; quindi i mostri stanno anche dentro le povere donne che evidentemente se li vanno a cercare anche fuori di loro; non sembri oltraggioso tale giudizio, anche se mi rendo conto che di primo acchito può sembrare tale.

    Non si spiegano altrimenti l’infatuazione che le prende di fronte a certi uomini e l’accondiscendenza con cui soggiacciono alle loro angherie, a volte per moltissimo tempo, prima di finire come finiscono.

    Ovviamente qui non intendo minimamente assolvere il maschio assassino e quasi rivoltare le responsabilità; anche se (come sempre) prima di emettere condanne sarebbe importante cercare di capire e analizzare.

    Sto solo dicendo che (come da più di un secolo ha scoperto e dimostrato la psicoanalisi) c’è un filo di complicità che lega sempre vittima e carnefice. Per cui bisogna curare (e in maniera possibilmente preventiva, anche se mi rendo conto la cosa non è semplice) sia la vittima che il carnefice.

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    Caro Massimo…

    di Lello Arena

    Caro Massimo,
    Il 19 Febbraio scorso abbiamo tutti festeggiato quelli che sarebbero stati i tuoi 70 anni ma invece poi ogni volta il 4 Giugno sopraggiunge, inesorabile, a ricordarci che gli anni li compiono i vivi e che sono già ben 29 quelli nei quali siamo stati costretti ad andare avanti senza un tuo nuovo film. Senza la tua ultima formidabile invenzione comica, senza il sollievo della tua arte, della tua amicizia e della tua presenza tra di noi.

    Il più bravo di tutti

    Malgrado ciò, pure questa volta, sei riuscito a dimostrare, senza dubbio alcuno, che sei il più bravo di tutti noi e che, a mettersi in gara con te, non c’è partita per nessuno. Come di certo saprai siamo Campioni d’Italia e oggi ci mettiamo finalmente sulla maglia il nostro terzo scudetto. Ed è giusto che ogni artista napoletano abbia voluto legittimamente considerare questo scudetto un pò suo e celebrarlo adeguatamente.

    Palchi in piazza, trasmissioni televisive, spettacoli fatti apposta per questa occasione, dichiarazioni, interviste, fotografie e chi più ne ha più ne metta. Pure io, non ti nascondo, un secondo dopo la fine di Napoli – Udinese stavo in diretta su una rete importantissima in mezzo alla festa di popolo che, nel frattempo era partita, immediata e appassionata, a Piazza del Plebiscito.

    Ricomincio da tre

    E tu? Con due titoli di film e un’intervista che, definire profetica, degna di uno sciamano, di uno stregone, è solo una banalità ci hai stracciato a tutti quanti. La tua bella faccia sorridente, in ogni via di Napoli, in ogni vicolo, su ogni bandiera, stendardo, striscione, maglietta, sciarpa, cappello . . .Ovunque , spontaneamente, a furore di popolo, una sola , unica voce : Ricomincio da tre.

    Le immagini di tu che balli a braccetto con Maradona mentre festeggi l’altro scudetto, la nostra partita con il suo calcio d’inizio, riproposti in continuazione, da ogni network, da ogni televisione, da ogni social e da centinaia e centinaia di persone, ci hanno permesso di sentirti con noi, come non mai, in un momento di grande gioia di questa città.

    Sei riuscito anche a far coincidere la data della festa per lo scudetto con quella che ogni anno ci rattrista non poco.

    Insomma sei riuscito a fare più tu, malgrado la tua assenza, che qualsiasi altro artista partenopeo vivente. E, non so come, sei riuscito anche a far coincidere la data della festa per lo scudetto con quella che ogni anno ci rattrista non poco. Come a volerci, almeno quest’anno, distrarre da una tristezza, da un dolore che, hai voglia a fare, hai voglia a dire, caro Massimo, non se ne vanno.

    Insomma, hai saputo fare un altro capolavoro.
    Come sempre !

    Ti abbraccio forte !
    E, se ti è possibile in qualche modo, abbracciami un poco pure tu !
    Lello


  • Reader’s – 3 giugno 2023. Rassegna web di nandocan magazine

    Se a guidare l’intelligenza artificiale fosse l’istinto di sopravvivenza dell’umanità e non quello di morte che sembra guidare attualmente i nostri governi, solo allora potrebbe considerarsi un utile passo avanti per il mondo (nandocan)

    L’intelligenza artificiale e l’allarme dei suoi guru: «L’umanità è in pericolo»

    Tra i 350 firmatari, i pionieri e i big che si contendono il primato nel settore. «Può portarci all’estinzione, servono regole vere»

    di Massimo Gaggi

    NEW YORK L’intelligenza artificiale, che sarà comunque il motore del nostro futuro, un grande produttore di progresso, potrebbe anche diventare una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità. Cercare di mitigare i rischi di estinzione del genere umano dovrebbe diventare una priorità planetaria come lo sono gli sforzi per evitare una guerra nucleare.

    Non é la prima volta

    Non è la prima volta che si parla di una super intelligenza capace di distruggere gli stessi uomini che l’hanno creata. Limitandoci all’ultimo decennio e a personaggi noti, moniti simili sono venuti da Elon Musk, da Bill Gates, da Jack Ma di Alibaba e dallo scienziato Stephen Hawking, scomparso nel 2018.

    L’allarme lanciato ieri dal Center for AI Safety, però, ha un’eco molto più vasta per due motivi: intanto perché da sei mesi, con la rapida diffusione di ChatGpt, l’intelligenza artificiale (AI) è passata da materia per pochi eletti (e, quindi, ignorata dai più) a tema di discussione quotidiana.

    Ma a farci riflettere è soprattutto il fatto che a firmare un documento che lancia un monito estremo e chiede ai sistemi politici e sociali di intervenire sono 350 imprenditori, ricercatori ed esperti del settore, compresi i personaggi che oggi si contendono il primato dello sviluppo dell’AI:

    Sam Altman, capo di OpenAi e padre di ChatGpt, Demis Hassabis, capo di DeepMind, l’AI di Google che ha messo in campo Bard e Dario Amodei, ceo di Anthropic: la start up di un gruppo di computer scientist che hanno lasciato OpenAI per creare una loro azienda (che è partner di Amazon). Hanno firmato l’appello anche due dei tre scienziati considerati i «padrini» dell’intelligenza artificiale: Yoshua Bengio e Geoffrey Hinton (che qualche settimana fa ha lasciato Google proprio per essere più libero di avvertire i governi e le opinioni pubbliche delle insidie di queste nuove tecnologie). Manca, per ora, la firma del terzo «padrino»: Yann LeCun, capo della ricerca di Meta-Facebook.

    Se nell’era delle reti sociali, cresciute in un clima da «liberi tutti», chi ipotizzava limiti e controlli veniva tacitato come retrogrado, in questa nuova stagione dell’intelligenza artificiale si discute fin dall’inizio di regole, anche se nessuno sa ben dire quali. E sono le stesse imprese a chiederle:

    Un mese fa alla Casa Bianca

    i capi della Silicon Valley ne hanno discusso un mese fa alla Casa Bianca con la vicepresidente Kamala Harris e con tutto lo staff di Biden e due settimane fa lo stesso Altman, durante un’audizione al Congresso, ha ripetuto la richiesta di regole per evitare che vengano messi in circolazione modelli di intelligenza artificiale incontrollabili.

    Fin qui, però, ci si è concentrati soprattutto sui rischi immediati di attacco ai sistemi informatici, disinformazione, sabotaggio di elezioni e altri effetti deleteri per le democrazie che possono derivare da un uso criminale dell’intelligenza artificiale.

    I rischi per la sopravvivenza dell’umanità sono rimasti sullo sfondo, anche perché sono in pochi a credere che l’AI — basata su un volume immenso di dati e una capacità di analizzarli e selezionarli usando metodi probabilistici — possa arrivare a un livello di consapevolezza analogo a quello degli umani. E a desiderare di sopprimerli o renderli schiavi.

    Chi teme il peggio

    Chi teme il peggio, però, ha in mente altri scenari: una super intelligenza priva di coscienza ma più potente di quella umana per capacità di analisi dei dati e rapidità di esecuzione che stermina il genere umano (magari diffondendo agenti patogeni) perché abbiamo incautamente affidato alle macchine un compito rispetto al quale l’uomo è un ostacolo da rimuovere.

    E la mancanza di coscienza delle macchine potrebbe essere non un ostacolo ma un incentivo allo sterminio. Un esempio raggelante di Musk: «Quando costruiamo una strada seppelliamo sotto l’asfalto un gran numero di formicai. Non siamo nemici delle formiche, ma è inevitabile sopprimerle se vogliamo la strada. Noi potremmo diventare formiche per l’AI».


    Il naufragio delle spie Aise-Mossad sul lago Maggiore. Funerale in Israele silenzio in Italia

    di Remocontro

    La riunione delle spie, forse una festa, probabilmente altro di cui mai sapremo, a conferma degli stretti rapporti di intelligence tra Israele e Italia. Ieri sepolto ad Ashkelon, Israele, l’ufficiale del Mossad morto nel ribaltamento della barca assieme a due agenti italiani e una cittadina russa
    C’era anche il capo del Mossad David Barnea ieri ai funerali di Erez Shimoni, ammesso che si chiamasse così l’alto ufficiale del servizio segreto israeliano. Sepolture sottotono per i due italiani sepolti a casa e per la cittadina russa a coronare gli ingredienti della ‘Spy Story’.

    «21 spie in gita sul lago», titolo da film poco credibile

    Le spiegazioni che non verranno. Erano tutti agenti segreti, i 21 passeggeri della strana gita sul lago a bordo della ‘Gooduria’, la barca condotta da Claudio Carminati, che ci viveva con la sua compagna, la russa Anya Bozhkova, a insaporire ulteriormente la ‘spy story’ finita in tragedia. Sulla barca dunque –precisano le relazioni dei carabinieri ai magistrati-, c’erano 13 israeliani e 8 italiani, tutti agenti segreti.

    Gli italiani appartenevano all’Aise, il servizio d’informazioni per l’estero. Gli israeliani tutti del Mossad. Com’è noto, quattro non ce l’hanno fatta: le due donne del gruppo, Anya Bozhkova e Tiziana Barnobi, rimaste imprigionate dentro l’imbarcazione che si è capovolta e poi è affondata, e due uomini, l’italiano Claudio Alonzi e l’israeliano Erez Shimoni. Tutti rientrati in patria -vivi e morti-, con volo speciale gli ospiti della sfortunata vacanza/missione avvolta nel mistero.

    Spionaggio stretto Israele Italia (+Usa)

    Anche il capo del Mossad David Barnea ieri ai funerali ad Ashkelon di Erez Shimoni, nome forse vero o forse no, ma certo alto ufficiale del servizio segreto israeliano morto domenica al Lago Maggiore nel ribaltamento dell’imbarcazione turistica in cui hanno trovato la morte anche due agenti dell’intelligence estera di casa. Per gli italiani forse l’onore dell’attuale capo dell’Aise Giovanni Caravelli, ma comunque il silenzio. Mentre per Shimoni tanti elogi funebri. Lutto e molto altro, scrive Michele Giorgio sul Manifesto. Non tanto per ricostruire le cause della sciagura su cui lavora la magistratura –ma non soltanto-, quanto piuttosto per comprendere i motivi della riunione di 21 tra agenti del Mossad, ex ma non troppo ed operativi, e dell’intelligence italiana.

    L’ex che tra le spie israeliane non esiste

    fatto che Israele abbia inviato immediatamente il ‘Bombardier executive’, l’aereo delle missioni più segrete del Mossad, per riportare a Tel Aviv i superstiti al naufragio -sempre Michele Giorgio-, rivela l’importanza delle persone e della loro missione in Italia. D’altronde lo stesso Shimoni, a 50 anni di età non poteva essere il pensionato di cui si è letto. Il quotidiano Haaretz ha scritto che «non è un segreto che pensionati esperti e qualificati dell’establishment della sicurezza, incluso il Mossad, vengano periodicamente richiamati per una sorta di servizio di riserva in base a contratti speciali». In poche parole, Shimoni sarà stato pure un pensionato ma era ancora dentro il Mossad.

    Vertice di chi e per cosa?

    Per questo l’ipotesi avanzata da più parti di un incontro ad alto livello tra spie italiane e israeliane, seguito da qualche ora di svago in barca finite in tragedia, è la più concreta, suffragata dal fatto che lo skipper Carminati è conosciuto per i suoi contatti con l’ambiente dei servizi segreti. Al momento, la sola cosa certa in tutta questa vicenda, è l’alleanza stretta che l’Italia ha da almeno 20 anni in campo militare e di intelligence con Israele, paese non europeo e non membro della Nato. Ma fortemente ‘Associato’; secondo alcun critiche, anche troppo.

    ‘Memorandum d’intesa’

    In vigore il memorandum d’intesa italo-israeliano ratificato nel 2005 da Camera e Senato che ha istituzionalizzato la cooperazione tra i ministeri della difesa, le forze armate e di intelligence dei due paesi. Lo scorso anno, il generale Amir Eshel, direttore del ministero della difesa israeliano, in visita a Roma, espresse la sua soddisfazione per «l’alleanza strategica tra i due Paesi e la posizione mantenuta dall’Italia a fianco di Israele nei contesti internazionali». Sulla questione palestinese, anche troppo, con ripensamenti politici tardivi recenti ad Occidente.


    Rivoluzione e fratellanza

    di Giovanni Lamagna

    Per l’ultimo Sartre – quello dell’intervista a Benny Levy, pubblicata nel libro “La speranza oggi” (Mimesis 2019) – l’idea di rivoluzione – in cui Sartre evidentemente ancora credeva o che (sarebbe meglio dire) alimentava ancora la sua speranza esistenziale – non è legata ad un atto, un evento specifico, cioè all’atto/evento insurrezionale nel quale sono inevitabili azioni cruente, di natura perfino terroristica.

    Ma è piuttosto associata al messianesimo ebraico, cioè al processo intrinseco alla Storia, al termine del quale gli uomini si vivranno come autentici fratelli. La rivoluzione, insomma, come piena realizzazione della fratellanza tra gli uomini.

    Speranza forse illusoria, perché del tutto utopica. Ma che unica – anche per me, come per Sartre, si parva licet – riesce a dare un senso (o, almeno, una direzione di marcia) alla vita. E, quindi, la voglia di camminare, procedere, andare avanti.


  • Reader’s – 2 giugno 2023 – rassegna web di nandocan magazine

    Un secolo e l’altro

    Newsletter n. 119 dell’1 giugno 2023

    Raniero La Valle per Costituente Terra

    Cari amici, meno male che Kissinger ha cento anni, perché se ne avesse cinquanta di meno farebbe dell’Ucraina un Vietnam, dettando tutto da solo le scelte della politica estera americana, come oggi dice di aver sempre fatto in passato.

    Il Vietnam costò agli Stati Uniti 60.00 morti e 153.000 feriti, per non parlare dei milioni di Vietcong e civili vietnamiti che in quella guerra persero la vita. Ma Biden nonostante le promesse di sostenere l’Ucraina fino alla fine, si guarda bene dal farne il suo Vietnam, e per suo mezzo debellare la Russia.

    Ucraina illusa di poter vincere

    Il supporto incondizionato a Kiev si può in realtà rivelare come un bluff, nel momento in cui l’Ucraina, illusa dalla schiera dei suoi alleati di poter vincere la guerra contro la Russia, si accorge che questo è impossibile e non ha come uscirne: deve rinunziare all’annunciata controffensiva di primavera, non riesce a riconquistare le terre irredente, non ha la strada dei negoziati che essa stessa ha precluso, né può dettare la pace alle sue condizioni, come le fanno credere i suoi partners europei.

    Nè può farlo al suo posto l’America: sarebbe contro natura per gli Stati Uniti giungere a uno scontro armato e finale con la Russia, come essi stessi hanno dimostrato con ben diversa sapienza durante tutto il corso della guerra fredda: e ci sono illustri reduci di quella vecchia America che ormai lo gridano sui tetti lanciando appelli alla diplomazia sul “New York Times”. Proprio perché credono all’Armageddon, gli americani non ci vogliono passare.

    Il bluff del “nuovo secolo americano”

    Se finisce il bluff del “morire per l’Ucraina”, finisce anche il bluff, o l’illusione, del “nuovo secolo americano” e dell’Impero globale dominato dagli Stati Uniti, che non dovevano essere superati, ma nemmeno eguagliati, come dicono, da alcuna altra Potenza. Possiamo così sperare che il conflitto in Europa si concluda prima che il suo contagio si diffonda o degeneri in una guerra mondiale, secondo l’avvertimento che viene dal Kosovo.

    Uscire dal sistema del dominio e di guerra

    Ma per noi è troppo poco che questa guerra finisca, innescando magari un lungo periodo di guerra virtuale e di “competizione strategica” fino alla “sfida culminante” con la Cina, come minacciano i documenti sulla “Strategia nazionale” degli Stati Uniti. Dobbiamo invece uscire dal sistema di dominio e di guerra e passare a un’altra idea del mondo, come un  mondo di mondi diversi in relazione tra loro, fondato sulla pace, sulla cura della Terra e sulla dignità di tutte le creature.

    In questi giorni un altro secolo è stato celebrato, quello dalla nascita di don Lorenzo Milani, sul quale pubblichiamo nel sito un importante articolo di Tomaso Montanari uscito sul “Fatto” di lunedì 29 maggio: la scuola – diceva don Milani alla fine della sua vita – non deve servire, “a produrre una classe dirigente, ma una classe cosciente”; e Montanari commenta:

    La scuola al servizio dello Stato esistente

    “Oggi , al tempo del ministero dell’Istruzione e del merito, la situazione è anche peggiore di quella che Milani combatteva. La scuola è stata messa al servizio dello stato esistente, non del suo scardinamento. Serve a trasformare i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è. Fa ancora parti uguali tra diseguali, e lo chiama ‘merito’. Manda ancora via i malati e la chiama ‘selezione’’’. Per non dire, potremmo aggiungere, della guerra alla quale, caduta in disuso l’obiezione di coscienza, non è ammessa nemmeno “l’obiezione dell’intelligenza”.
    Con i più cordiali saluti,

    Costituente Terra (Raniero La Valle)


    Dal Maghreb alla Tunisia siccità devastante: fame o fuga

    di Piero Orteca

    Questa volta il cambiamento climatico ha colpito duro, proprio vicino casa nostra, determinando una situazione d’emergenza che potrebbe avere disastrose conseguenze, nell’immediato futuro.
    Il cambiamento climatico che qualcuno ancora nega. Clima e flussi migratori. La guerra del grano tra Russia e Ucraina e quelle del pane. E i governi ‘consigliano’: mangiate meno pane

    Il cambiamento climatico che qualcuno ancora nega

    Tutta la regione nordafricana del Maghreb, dal Marocco all’Algeria, è stata messa in ginocchio da una devastante siccità. Un fenomeno che, dalle sponde dell’Atlantico, si è progressivamente esteso, Arrivando fino al cuore della Tunisia, e ‘bruciando’ milioni di ettari di terreno coltivato. Principalmente a cereali: grano e orzo. Tragica notizia per una popolazione che si sfama essenzialmente col pane, che proprio in tutti questi Paesi, al pari dell’acqua, fa la differenza tra la vita e la morte. E proprio eventi indotti da calamità naturali, va sottolineato, possono rientrare tra le motivazioni che, per il nuovo diritto internazionale, giustificano la concessione dello status di rifugiato. Insomma, c’è una correlazione molto stretta tra deterioramento ambientale, eventi atmosferici estremi e flussi migratori a crescita esponenziale

    Clima e flussi migratori

    Secondo lo speciale Centro studi dell’Unione Europea, la quasi totale assenza di piogge, che ha colpito l’Africa Nord-occidentale negli ultimi nove mesi, è stata un evento eccezionale, in una regione comunque già abituata a ciclici periodi di siccità. Ne ha sofferto, in particolare, l’agricoltura, che mediamente concorre a formare tra il 13 e il 15% del Prodotto interno lordo di Marocco, Algeria e Tunisia. Gli esperti calcolano che, data la scarsità di falde acquifere sfruttabili (il terreno è essenzialmente sabbioso e il liquido filtra in profondità), almeno l’85% dell’acqua disponibile sia sfruttata dagli agricoltori per l’irrigazione. Per la verità, la situazione climatica, in tutto il Maghreb e fino alla Tunisia, è andata peggiorando nel corso degli ultimi tre anni. I periodi di scarsa piovosità sono sempre stati frequenti, ma la loro durata era intervallata da precipitazioni sufficienti a evitare una totale siccità.

    Adesso, però, qualcosa è cambiato e passano mesi e mesi senza che cada una goccia di pioggia. Così i governi sono costretti a intervenire, con ‘sussidi’ o integrando il prezzo del pane, per tenerlo artificialmente basso. Fino a quando?

    La guerra del grano e quelle del pane

    La guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia hanno sconvolto il mercato internazionale del grano, dell’orzo e degli oli vegetali.
    Il Marocco dovrà importare almeno il 30% in più di cereali, per sfamare la sua popolazione di 36 milioni di abitanti. Anche la Tunisia dovrà fare uno sforzo di import in questa direzione, magari un po’ meno oneroso di quello marocchino, ma indispensabile. Perché i suoi fragili equilibri politici, espongono il suo sistema agli umori della piazza. E chi ricorda le ‘Primavere arabe’ del 2011, non potrà ignorare che, quelle tunisine, cominciarono come ‘rivolte per il pane’.
    Algeria. Qui la situazione cerealicola era abbastanza stabile fino al 2020, perché, per loro fortuna, le aree estensivamente coltivate a grano non avevano sofferto di particolare siccità. Ma poi la situazione è progressivamente precipitata, fino ad arrivare, nell’inverno di quest’anno e nei successivi mesi primaverili, quasi completamente all’asciutto.

    Agricoltura e politica

    Tanto che, come sostiene il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, l’import di grano algerino, nel 2023, potrebbe battere tutti i record. Inutile dirlo: gli analisti delle Cancellerie occidentali sono preoccupatissimi, per la piega che potrebbero prendere gli avvenimenti. In una situazione di equilibri geopolitici tanto ‘ballerini’, Paesi così importanti non possono essere abbandonati al loro destino.
    Il Marocco, per esempio, ha un primo ministro-miliardario già fin troppo chiacchierato, Aziz Akhannouch, che non viene digerito dai ceti più popolari più pronti a infiammarsi. A rischio, come si è detto prima, anche la Tunisia. Mentre, almeno dal punto di vista della stabilità politica, l’Algeria sembra lo Stato-nazione che, per molti motivi, sembra una sorta di ‘democrazia corazzata’ (dall’esercito), dove il dissenso c’è ma non si vede.

    ‘Mangiate meno pane’

    Per dare un’idea, dei problemi che devono affrontare i governi maghrebini e tunisino, va sottolineato che tutti e tre gli esecutivi hanno imposto il razionamento dell’acqua e ‘consigliato’ di mangiare meno pane. Naturalmente, la ragione è palese: importare prodotti alimentari, significa togliere dai propri forzieri valuta pregiata, a cominciare dai dollari. Cioè, tutte risorse che servono a stabilizzare il cambio della propria valuta nazionale, e che vengono esibite come ‘biglietto da visita’, per avere accesso al mercato internazionale dei capitali. Fondo monetario in testa. L’alternativa (assolutamente indispensabile) è quella di studiare un programma per un efficiente utilizzo dell’acqua, specie in agricoltura.

    Tecnologia in un futuro lontano

    A questo scopo risponde il ‘Piano verde’ marocchino (nuove tecnologie a basso impatto idrico), e la ‘Road map agricola’ algerina. Quest’ultima punta a raggiungere, in futuro, l’autosufficienza produttiva sviluppando le colture di grano, mais, barbabietola da zucchero e semi oleosi di base. In Tunisia, invece, si comincia a guardare allo sfruttamento del fotovoltaico, come forma di energia da utilizzare nelle colture in serra di ultima generazione, che sfruttano l’umidità atmosferica. Ma si tratta, in tutti i casi, di progetti ambiziosi, costosi e limitati nella loro estensione.

    La realtà vera è quella attuale, di un Nord Africa devastato dalla siccità, pronto a scatenare migrazioni bibliche, di masse che non riescono a mangiare il minimo indispensabile per poter sopravvivere.


    Popolo e patria

    di Giovanni Lamagna

    La storia degli Ebrei dimostra che ci può essere coscienza di sé in un popolo, anche se questo popolo è in diaspora, ha perso la patria, cioè il territorio in cui nacquero e vissero i suoi antenati, ed è ora disperso in mille rivoli disseminati per il mondo.

    Forse solo i Rom hanno, in questo senso, una storia simile a quella degli Ebrei. Non a caso entrambi questi popoli furono oggetto “privilegiato” delle persecuzioni naziste.


  • Reader’s – 1 giugno 2023 (speciale)

    Il mio ricordo di don Lorenzo Milani nel centenario della nascita

    Non un profilo biografico, ce ne sono tanti in giro. Quello che segue è un un ricordo personale di due incontri con lui e di una stagione straordinaria e indimenticabile della città in cui sono cresciuto (nandocan)

    A Barbiana (e Firenze) con don Milani

    Per un giornalista alle prime armi come ero io nella Firenze dei primi anni sessanta non era facile farsi ricevere a Barbiana da don Lorenzo Milani, in quella parrocchietta sperduta del Mugello dove era stato confinato dalla Curia arcivescovile. Per riuscirci avrei dovuto accettare di essere “processato” davanti alla classe dei suoi ragazzi, in rappresentanza di tutta la mia corporazione di pennivendoli.

    E così avvenne, con qualche disagio da parte mia ma anche il premio di un’esperienza indimenticabile, quella di  testimone diretto della straordinaria complicità che legava il priore a quei ragazzi così diversi da lui per educazione e provenienza sociale. E della feroce determinazione che quello straordinario maestro poneva nel far crescere nelle menti di quei piccoli montanari l’orgoglio della propria dignità. Così ogni settimana faceva salire lassù, uno per volta, politici, scienziati, artisti, militaristi, antimilitaristi, nobildonne, stranieri, protestanti per darli in pasto alla curiosità e al desiderio di conoscere dei suoi alunni.

    Dopo l’uscita del primo libro

    Ricordo anche un altro incontro, precedente, con don Milani.  Giugno 1959, due anni dopo l’uscita del primo libro, “Esperienze pastorali”, quello che gli era costato (felix culpa) il trasferimento punitivo dalla Pieve di San Donato a Calenzano a una parrocchietta sperduta nell’Alto Mugello, che diventerà famosa nel mondo come la scuola di Barbiana.

    Alcune pagine “rivoluzionarie” di quel libro ci erano state lette in classe, al liceo Dante di Firenze, dal nostro professore di religione, don Raffaele Bensi, prima che il libro uscisse. Don Bensi era anche il direttore spirituale di Lorenzo, come lo era di Giorgio La Pira e di molti giovani cattolici della mia generazione, tra cui Tiziano Terzani e il sottoscritto.

    Nella Firenze di quegli anni: con Balducci, La Pira, Turoldo

    Ma veniamo a quella riunione improvvisata del 22 giugno 1959. Rivedo ancora la scena, nella penombra estiva di un antico palazzo di via Capponi, dove  “Testimonianze”, la rivista fondata da Padre Ernesto Balducci, aveva  la sua redazione, al centro della città. A poche centinaia di metri, in via Venezia, era la cella conventuale in cui viveva il sindaco Giorgio La Pira, che nelle sue passeggiatine serali spesso si affacciava a salutarci con frasi come questa: “Signori, va tutto bene. Diceva mio nonno: il Papa fa gli ultimi sforzi per essere re”.  

    La Firenze di quegli anni era davvero un laboratorio di novità politiche e culturali, oltre che religiose. A duecento metri da noi, nella chiesa dell’Annunziata, predicava David Maria Turoldo, religioso e poeta. Un poco più lontano, la chiesa dell’Isolotto aveva da poco un parroco “sovversivo”, don Enzo Mazzi, che nel sessantotto verrà sospeso e costretto insieme con la sua comunità a celebrare messa in piazza.

    Pane al pane, senza prudenza

    Per il cardinale Ottaviani e il suo amico arcivescovo di Firenze, monsignor Florit, così come per il direttore della “Nazione”, Enrico Mattei, eravamo i “comunistelli di sagrestia”. Una frase “volgare e qualunquista”, la definirà poi don Milani. “Comunistelli”, figuriamoci. Con Papa Pio XII felicemente regnante, era già eversivo non confondersi con i clericali e gli integralisti, non pensare al PCI come al demonio. Denunciare, come faceva don Milani, i compromessi della Chiesa con il capitalismo e stare dalla parte dei preti operai – don Bruno Borghi, a Firenze, era allora il primo in Italia – bastava a mettersi sotto tiro.

    Ma “la famiglia cristiana dell’operaio e del contadino – scriveva il priore di Barbiana nel ’58 a un amico milanese – ha bisogno di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal denaro e dalla potenza, dalla Confida, dal governo, capace di dire pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni Battista”.

    Solo i dieci comandamenti

    I profeti e il Battista. Già perché la spiritualità cristiana dell’ebreo Lorenzo Milani sapeva molto di Vecchio Testamento. “La religione per me – scriveva nel ’61 a Elena Brambilla, un’altra dei suoi amici milanesi – consiste solo nell’osservare i 10 comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o son balle o appartiene a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri”. La verità è che tra i cosiddetti cattolici del dissenso, che si ispiravano alle novità teologiche di oltralpe, ai De Lubac, Danielou, Chenu, Teilhard de Chardin, quella di don Milani era una figura molto particolare, quasi ostentatamente semplice e gelosa della propria diversità.

    Un incontro difficile

    Le difficoltà di quell’incontro nel palazzo di via Capponi si spiegavano anche così. Ma ecco come lo raccontò il giorno dopo lo stesso don Milani in una lettera a Elena Brambilla del 23 giugno 1959. “Ieri ero a Firenze per accompagnare i ragazzi agli esami. Mentre aspettavo che uscissero mi si sono avvicinati due giovani che non conoscevo pregandomi di seguirli in una loro saletta dove in breve tempo hanno radunato un bel gruppo di giovani studenti loro pari e un sacerdote che conoscevo solo dagli scritti: il padre Balducci. Sono state due ore di inferno per me e per loro. Si parlava due lingue: per me era lo stesso che essere all’estero, ma all’estero senza lingua! E sono cattolici ferventi anzi eroici (la loro rivista si chiama “Testimonianze”) e sono per di più ferventi ammiratori e propagatori del mio libro”.

    Ricordo una frase

    A quasi sessant’anni di distanza, di  quell’incontro improvvisato non ricordo molto, ma mi rimase impressa una frase: “Io i miei ragazzi li amo fino al limite del sesto comandamento”. Sì, proprio quello che nella Bibbia è tradotto con “Non commettere adulterio” e nel catechismo, assai più genericamente,“non commettere atti impuri”. Che una frase come quella potesse essere allora causa di turbamento era ed è comprensibile.

    Per qualcuno anche oggi dopo che gli scandali dei sacerdoti pedofili si sono moltiplicati. Ma nel linguaggio volutamente provocatorio di don Milani non solo l’obbedienza – come nella sua famosa lettera ai cappellani militari –  ma anche la prudenza “non è più una virtù”. E lui non riesce neppure a concepire in quel suo popolo di montanari  “un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri di ascetica” (lettera a Elena Brambilla del 20.6.1961).

    “Io i miei figlioli li amo”

    Scrivendo a Giorgio Pecorini, il giornalista con cui a quel tempo anche noi di Testimonianze eravamo in rapporto, don Lorenzo narra di due preti che gli avevano domandato se il suo scopo nel far scuola “fosse di portarli alla Chiesa o no” e cosa altro gli “potesse interessare al mondo nel far scuola se non questo”.  “E io – commenta – come potevo spiegare a loro così pii e così puliti che io i miei figlioli li amo, che ho perso la testa per loro, che non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare?”.

    Che in quel “perdere la testa” ci fosse anche qualcosa di sensuale, di castamente “socratico”, forse non è da escludere. D’altronde non era infrequente tra i sacerdoti che si dedicavano alla direzione spirituale dei ragazzi, a cominciare dallo stesso don Bensi. Da qui ad accostarlo, come ha fatto qualche improvvisato biografo qualche anno fa, al protagonista di un romanzo piccante, per non dire porno, ci corre. Omnia munda mundis. (nandocan)


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