Malgrado le sue fragilità, il socialismo cinese ha nondimeno molti vantaggi. Le potenze occidentali, ostinandosi a difendere un’ideologia ipercapitalista ormai sorpassata, non riusciranno certo a limitare la crescente influenza del regime cinese… Viceversa, fa specie dover rilevare come i principali Stati occidentali si ritrovino, all’inizio degli anni 2020, con posizioni patrimoniali quasi nulle o negative.
da “una breve storia dell’uguaglianza” di Thomas Piketty*

* Di questo libro ho pensato di proporre gradualmente sul blog, a scopo divulgativo, i brani che ritengo più significativi. La pandemia come la crisi politica, economica e ambientale che l’ha preceduta e accompagnata fanno oggi dell’ingiustizia sociale il problema più scottante per l’umanità. Nella sua “breve storia”, di cui raccomando la lettura integrale, Piketty scrive che “l’eguaglianza è una lotta che può essere vinta e nella quale ci sono sempre varie traiettorie possibili, che dipendono dalla mobilitazione, dalle lotte e da ciò che si apprende dalle lotte precedenti”.
**Thomas Piketty, professore dell’École des Haute Études en Sciences Sociale e dell’École d’Économie de Paris, è autore di numerosi studi storici e teorici che gli hanno fatto meritare nel 2013 il premio Yrjö Jahnsson, assegnato dalla European Economic Association. Il suo libro “Il capitale nel XXI secolo (2014) è stato tradotto in 40 lingue e ha venduto 2,5 milioni di copie.
Salvo una flessione impensabile, la Repubblica popolare cinese è destinata a diventare, nei prossimi decenni, la massima potenza economica del pianeta, anche se nessuno può prevedere a quale ritmo e per quanto tempo.
La Cina sembra essersi stabilizzata attorno a una struttura di proprietà che si potrebbe definire di economia mista: il paese non è più propriamente comunista, ma non è nemmeno completamente capitalista, poiché la proprietà pubblica rappresenta poco più del 30% del totale, una quota certo minoritaria ma in ogni caso molto sostanziosa.
Forte controllo statale sulle imprese
La mano pubblica detiene attualmente attorno al 55-60% del capitale totale delle imprese (mettendo insieme società quotate e non quotate, senza distinzione di volume e settore): la quota è rimasta pressoché immutata dopo il 2005-2006 e conferma il mantenimento di uno stretto controllo da parte del sistema produttivo statale, nonché di un accentuato controllo delle maggiori imprese.
Oltre a questa architettura di economia mista e al forte controllo statale sulle imprese, l’altra caratteristica importante del “socialismo in versione cinese”, come il regime di Pechino ama definirsi, è evidentemente il ruolo dominante del partito comunista cinese. Il PCC conta nel 2020 più di 90 milioni di membri, ossia circa il 10% della popolazione adulta del paese.
Il ruolo dominante del PCC
Il modello della dialettica all’interno del partito è così poco convincente da non lasciare alcuna traccia all’esterno, laddove ciascuno di noi può vedere sempre più chiaramente, sui social, l’attivazione di un sistema di sorveglianza generalizzata della popolazione, la repressione dei dissidenti e delle minoranze, lo stravolgimento del processo elettorale a Hong kong e le minacce fatte pesare sul sistema di democrazia elettorale di Taiwan.
L’idea che un regime del genere sia in grado di conquistare l’opinione pubblica di altri paesi (e non solo i loro dirigenti) non sembra realistica. Da aggiungere ancora, a carico del regime cinese, la forte crescita delle disuguaglianze, l’estrema opacità che caratterizza la ripartizione delle ricchezze, il sentimento d’ingiustizia sociale che ne deriva, sentimento che non potrà essere risolto in eterno con qualche arresto o qualche eliminazione mirata.
Malgrado le sue fragilità, il socialismo cinese ha nondimeno molti vantaggi. Le potenze occidentali, ostinandosi a difendere un’ideologia ipercapitalista ormai sorpassata, non riusciranno certo a limitare la crescente influenza del regime cinese… Viceversa, fa specie dover rilevare come i principali Stati occidentali si ritrovino, all’inizio degli anni 2020, con posizioni patrimoniali quasi nulle o negative.
Paesi ricchi e Stati poveri
Parliamoci chiaro: i paesi ricchi sono ricchi, non essendo mai stati i patrimoni privati così elevati, ma i loro Stati sono poveri. Se continuano lungo questa strada, probabilmente si ritroveranno con un patrimonio pubblico sempre più negativo, il che corrisponderebbe a una situazione in cui i detentori dei titoli di debito sarebbero in possesso non solo dell’equivalente di tutti gli archivi pubblici (edifici, scuole, ospedali, infrastrutture ecc.) ma anche di un diritto di prelievo su una parte delle imposte dei contribuenti futuri.
Viceversa, sarebbe possibile, come è stato fatto nei medesimi paesi nel dopoguerra, ridurre l’indebitamento pubblico in modo accelerato, per esempio colpendo i maggiori patrimoni privati e restituendo così margini di manovra al potere pubblico. Il che comporta una presa di coscienza delle molte scelte possibili e delle mobilitazioni politiche e sociali in tal senso, fattori che rischiano di sfociare ulteriormente in situazioni di crisi, considerando il conservatorismo complessivo.
Cina industrializzata senza ricorrere alla schiavitù e al colonialismo
Più in generale, la Cina non manca mai di ricordare di essersi industrializzata senza ricorrere alla schiavitù e al colonialismo, di cui ha peraltro pagato le conseguenze. E ciò la mette nella condizione di acquisire punti a favore rispetto a quanto viene percepito un po’ ovunque nel mondo come l’eterna arroganza dei paesi occidentali. I quali sono sempre pronti a impartire lezioni all’intero universo in materia di giustizia e di democrazia, quando invece si rivelano incapaci di fronteggiare le disuguaglianze e discriminazioni che li stanno consumando, e patteggiano come se niente fosse con tutti i potentati e gli oligarchi che sono i maggiori beneficiari delle loro fortune.