A partire dal 1980-1990, quello che viene chiamato il “Washington Consensus” ha ispirato le politiche raccomandate ai paesi poveri: riduzione del peso dello Stato, austerità di bilancio, liberismo commerciale, deregolamentazione a trecentosessanta gradi. E, considerati gli asimmetrici rapporti di forza in campo, non è esagerato affermare che tali politiche sono state imposte anziché consigliate, né vedervi una forma di neocolonialismo (anche se i meccanismi di persuasione non sono stati gli stessi dell’epoca coloniale).
da “una breve storia dell’uguaglianza” di Thomas Piketty*

* Di questo libro ho pensato di proporre gradualmente sul blog, a scopo divulgativo, i brani che ritengo più significativi. La pandemia come la crisi politica, economica e ambientale che l’ha preceduta e accompagnata fanno oggi dell’ingiustizia sociale il problema più scottante per l’umanità. Nella sua “breve storia”, di cui raccomando la lettura integrale, Piketty scrive che “l’eguaglianza è una lotta che può essere vinta e nella quale ci sono sempre varie traiettorie possibili, che dipendono dalla mobilitazione, dalle lotte e da ciò che si apprende dalle lotte precedenti”.
**Thomas Piketty, professore dell’École des Haute Études en Sciences Sociale e dell’École d’Économie de Paris, è autore di numerosi studi storici e teorici che gli hanno fatto meritare nel 2013 il premio Yrjö Jahnsson, assegnato dalla European Economic Association. Il suo libro “Il capitale nel XXI secolo (2014) è stato tradotto in 40 lingue e ha venduto 2,5 milioni di copie.
Con il senno di poi di cui oggi disponiamo, appare chiaro che la politica di deregolamentazione e di liberismo commerciale a marce forzate ha contribuito a indebolire, con effetti di lunga durata, il già fragile processo di costruzione dello Stato nei paesi del sud.
Il crollo delle entrate nei paesi più poveri
In concreto, se si esamina il loro gettito fiscale in rapporto al PIL, si rileva che tra il 1970-1980 e il 1990-2000 gli Stati più poveri del pianeta si sono impoveriti ancora di più, salvo una lieve ripresa nel decennio 2010-2020, senza per questo aver potuto organizzare una ripartenza (sia pure su standard molto bassi). Il crollo delle entrate si spiega quasi per intero con la perdita dei diritti doganali. Precisiamo che il fatto di ridurre le tasse sugli scambi internazionali non è di per sé una pessima cosa, a patto però di compensare la riduzione con imposte dirette sui profitti delle multinazionali e sui più alti redditi e patrimoni. Il problema è che sta accadendo l’esatto contrario: la soppressione dei diritti doganali è stata imposta a ritmi accelerati senza che i paesi interessati abbiano avuto il tempo di sviluppare tasse alternative, e senza alcun sostegno internazionale al riguardo (se mai il contrario: del resto il principio dell’imposta progressiva non poteva contare sul “Washington consensus”).
In molti paesi africani, come in Nigeria, Ciad o Repubblica Centrafricana, le entrate fiscali sono compresi tra il 6 e l’8% del Pil. Come si è notato analizzando la formazione dello Stato nei paesi sviluppati, si tratta di entrate appena sufficienti per mantenere l’ordine e provvedere a qualche infrastruttura di base.
Entrate che non permettono di istituire un finanziamento significativo nei settori dell’istruzione della salute, per non parlare di un sistema di previdenza sociale.
Fuga dei capitali dal sud verso il nord
Detto in modo più brutale, il tutto può anche rispecchiare il fatto che i paesi ricchi si sono preoccupati in particolare di liberalizzare gli scambi per aprire mercati alle loro imprese e si sono sentiti ben poco propensi a consigliare ai paesi poveri l’imposta sui profitti delle multinazionali o la regolamentazione della fuga di capitali dal sud, tanto più che questi stessi capitali finiscono in genere per essere collocati nelle banche e nelle città del Nord.
In genere, va semmai sottolineata la vastità dei danni causati dal nord al sud con l’irresistibile crescita, negli ultimi decenni, della libera circolazione dei capitali, dei paradisi fiscali e dell’opacità finanziaria internazionale.
I danni sono certamente di portata notevole un po’ ovunque, anche nel Nord, dove la circolazione incontrollata dei capitali ha fortemente contribuito a mettere nuovamente in discussione la progressività dell’imposta e instaurare un nuovo potere censitario.
Gli asset finanziari detenuti nei paradisi fiscali
Secondo le stime disponibili, gli asset finanziari detenuti nei paradisi fiscali rappresentano tra i 10 e il 20% del totale dei portafogli in possesso dell’Europa e dell’America latina (cosa già peculiare in sé) e tale quota è collocata tra il 30 il 50% in Africa, in Asia del Sud e nei paesi petroliferi (Russia, petro-monarchie).
Si tratta, de facto, di un’elusione poderosa e generalizzata dei sistemi giuridici nazionali a vantaggio di asset offshore, il tutto con la benedizione delle massime autorità mondiali, del diritto internazionale e delle élite locali.
In condizioni simili è quasi impossibile per gli Stati più poveri avviare un processo praticabile di costruzione dello Stato che si basi necessariamente su un consenso minimo all’imposta da parte della popolazione, e dunque sulla costruzione di una normativa credibile di giustizia fiscale e sociale. Se i più ricchi eludono apertamente gli impegni comuni, diventa assai difficile realizzare progressi in tal senso.